Loris Baz, l’intervista: “Indovinate perché mi chiamo così?”
Credits: Dario Aio
Tornato tra le derivate dopo tre stagioni in MotoGP, Loris Baz si sta preparando al round di Misano, questo weekend. “Ho un bel ricordo della pista romagnola: nel 2014, mio ultimo anno nella WorldSBK, correvo sulla Kawasaki, sono salito sul secondo gradino del podio in entrambe le gare” racconta il rider francese del team italiano Gulf Althea BMW Racing, 25 anni, campione europeo di Superstock nel 2008.
Come hai vissuto il rientro nella WorldSBK?
“Come un ritorno a casa: non nascondo che sarei voluto rimanere nella classe regina, ma non c’erano le condizioni. Questo non significa che le derivate siano un ripiego: sono contento di partecipare al Mondiale ,anche perché ho una gran voglia di vincere.
Avevo ricevuto diverse proposte, poi mi ha contattato Genesio (Bevilacqua, team manager della scuderia, ndr) e ho pensato subito che avremmo lavorato bene insieme: sono positivo, credo ne progetto e, se la BMW ci fornirà i mezzi, sono sicuro che ci toglieremo delle soddisfazioni”.
Da dove viene la tua passione per le moto?
“Ha due origini. La prima sono i miei genitori, che non si sono mai persi una gara in televisione. Mamma lavorava nella cucina del team Roc: il proprietario della scuderia, Serfe Rosset, è stato il padrino di mia sorella, maggiore di me di 12 anni. Sai perché mi chiamo Loris?”.
Perché?
“È un omaggio a Loris Capirossi, di cui erano tifosi i miei: si è laureato campione del mondo nella 125 nel 1990 e nel 1991 e io sono nato nel 1993 con tempismo perfetto.
Poi sei diventato suo fan?
“Sì, sfegatato, e litigavo sempre con mia sorella, che tifava per Rossi. Di Capirex avevo tutto, dai poster ai modellini e non ti dico la gioia, quando l’ho incontrato da piccolo nel paddock: ho tante foto insieme a lui. Ho conosciuto anche la moglie Ingrid, il fratello, sono andato alla scuola del padre e Loris mi ha seguito nel mio percorso. Dopo diversi anni ho rivisto Ingrid a un Gran Premio, Loris mi ha presentato e lei non ci credeva: ‘Loris, quel piccolino? Davvero è diventato così?’ ha detto”.
Parlavi di due origini della passione per le moto.
“La seconda è stata la necessità. Mia mamma aveva un ristorante in montagna e l’unico mezzo per arrivarci d’estate erano le due ruote. A 7 anni avevo già deciso il mio futuro”.
Cioè?
“Un giorno la maestra mi chiede cosa farò da grande. La mia risposta non è stata: ‘Vorrei diventare un pilota’. Io ero proprio convinto e ho detto: ‘Sarò un pilota’.
Non ringrazierò mai abbastanza la mia famiglia, che mi ha permesso di provarci: mamma e papà hanno fatto sacrifici enormi. Per me sono un esempio di coraggio e combattività”.
Racconta.
“Mamma è venuta con me in Spagna, correvo lì da ragazzino, papà ha venduto la casa e poi l’azienda. In confronto a loro, le mie rinunce valgono poco: non mancano, se intraprendi la strada del professionismo, ma non mi pesano perché sono indipsensabili per migliorare.
La moto mi piace di più adesso rispetto a quando ero bambino e, più passa il tempo, più lavoro duro”.
Come hai ripagato gli sforzi della tua famiglia?
“Con la fiducia e l’impegno totali: abbiamo un rapporto molto stretto, di confronto e dialogo. Considero papà uno dei miei migliori amici, trascorriamo molto tempo insieme: fino alla scorsa stagione mi accompagnava a tutte le gare europee e mamma a quelle oltreoceano.
Quest’anno sono più indipendente, credo che papà mi segua meno perché sta ancora metabolizzando la mia uscita dalla MotoGP: non vuole farsi vedere giù di morale, è rimasto più deluso di me”.
Ti dà consigli?
“Mai, come mia mamma: non sono invasivi, una rarità nell’ambiente: alcuni genitori sono una calamità per i figli. Mio padre andava in moto, eppure mi ha affiancato un allenatore, quando ho iniziato a praticare motocross, a 8 anni.
A 13 anni guidavi una 600, a 14 una 1000: sei stato un enfant prodige.
“Perché ero già alto 1 metro e 90, poi mi sono fermato a un centimetro in più, e robusto. Il fisico mi ha aperto le porte del paddock e ho cominciato a vincere subito: a 15 anni, il campionato europeo Superstock, a 16, una gara di WorldSBK (a Silverstone, ndr), sono stato il secondo più giovane della storia dopo Yuichi Takeda (nel 1996, ndr).
La Kawasaki mi ha affidato la moto proprio perché ero giovane e io ho colto subito l’occasione. Sono passato in MotoGP per lo stesso motivo, rinunciando all’opportunità fantastica che Kawasaki mi garantiva.
Lo rifaresti?
“Subito, ma non alle stesse condizioni: non sono vecchio, ma nemmeno così giovane. Accetterei se ricevessi maggiori sicurezze, anche dal punto di vista economico”.
A proposito di altezza, parecchio sopra la media rispetto a quella dei colleghi: ti torna utile in sella?
“In alcune fasi, in frenata per esempio, sì. L’aerodinamica, invece, dà qualche problema, però basta lavorarci su, è tutta questione di adattare la carena”.
Sei superstizioso?
“No. Ho provato ad affidarmi a portafortuna e rituali, ma non hanno funzionato. Tanto vale lasciare perdere”.
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