Monthly Archives: Luglio 2019

Toyota Supra: gomme fumanti

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Sono passati 23 anni da quando abbiamo visto il nome della Toyota Supra per l’ultima volta nei listini italiani. Ora la sportiva iconica giapponese – arrivata alla quinta generazione – è tornata: una coupé a trazione posteriore nata dopo sette anni di gestazione, due posti secchi, una taglia più piccola della sua antenata e tanti elementi condivisi (piattaforma, motore, cambio e buona parte degli interni) con la terza generazione della spider BMW Z4.

Una partnership, quella con la Casa tedesca, che ha suscitato qualche perplessità tra gli appassionati, poco disposti ad accettare il fatto che l’auto venga prodotta in Austria; una contaminazione che, secondo alcuni, guasta in qualche modo un pezzo di storia automobilistica giapponese. Ma la Toyota non è, come sareste portati a credere, una BMW vestita con un kimono: è molto di più.

Motore e prestazioni

Le forme della nuova Toyota Supra sono muscolose ed esotiche, con un cofano lungo e levigato e dei gruppi ottici che richiamano il modello precedente, mentre il posteriore scolpito e pronunciato è molto molto racing. Sotto il cofano anteriore troviamo un motore sei cilindri in linea turbo da 3 litri, posizionato appena dietro le ruote anteriori per garantire una distribuzione dei pesi 50:50. 340 cavalli di potenza, 500 Nm di coppia e un cambio automatico a 8 rapporti (l’unica trasmissione disponibile) prodotto da ZF. Le prestazioni sono esaltanti: 0-100 km/h in 4,3 secondi e 250 km/h (limitati) di velocità massima.

I dati tecnici
Le prestazioni
Accelerazione 0-100 4,3 secondi
Potenza 340Cv
Velocità massima 250 Km/h
Cilindrata 2.998 cm3
I consumi
Ciclo combinato 7,5l/100km
Emissioni di CO2 170g/km

Toyota Supra: una piccola Gran Turismo

L’anima della nuova Supra tuttavia non è da teppista adatta solo per le domeniche in pista: si sta seduti comodi, gli interni sono curati e di qualità (le finiture e la tecnologia bavarese giovano, diciamolo) e le sospensioni sono in grado di assorbire ogni tipo di strada. Si potrebbe definire una piccola “GT”, una gran turismo sportiva con cui macinare chilometri, anche perché il bagagliaio da 290 litri è sufficiente per un trolley e una valigia morbida, quello che serve per due persone.

Ma questa sua comodità non intacca minimamente la precisione di guida. Se si passa da “Normal” a “Sport” la Toyota Supra tende le fibre dei suoi muscoli e diventa precisa, veloce e stabile – grazie alla ripartizione perfetta dei pesi – ma affilata per via delle sospensioni adattive e dello sterzo preciso e lineare. I più smaliziati al volante apprezzeranno anche il differenziale autobloccante a due vie, che permette trazione in uscita di curva ma anche un inserimento migliore. Ma tutti potranno godere della spinta dolce e corposa del sei cilindri in linea, della sua voce piena e degli scoppiettii in rilascio.

Nuova Supra: un livello superiore

La Toyota Supra è e rimane un mito e il fatto che questa versione moderna sia “co-sviluppata” non la rende meno sportiva, meno divertente o meno bella da guardare. Anzi, la Supra raggiunge una qualità di livello superiore (soprattutto negli interni e nel sistema multimediale) ed è una vera e propria sportiva dalla doppia anima: comoda per l’utilizzo di tutti i giorni ma precisa e coinvolgente in pista o su una strada di montagna. In Italia viene venduta solo nell’allestimento Premium completo di ogni gadget desiderabile, tra cui fari a LED adattivi, cerchi in lega da 19”, differenziale elettronico, freni performanti e impianto audio premium JBL con 12 altoparlanti. Il prezzo è di 67.900 euro mentre per le prime consegne ai clienti bisognerà aspettare purtroppo dopo l’estate.

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Viaggio nel Mondo Lexus

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A Fukuoka, mille chilometri da Tokyo, c’è un autosalone che sembra un hotel a cinque stelle. Atmosfera rarefatta, lieve musica di sottofondo, il sorriso composto di giovani ragazze dalle acconciature perfette, divanetti di lusso, mega schermi a LED, venditori discreti. Rigorosamente uomini. È in luoghi come il Fukuoka Higashi Retailer, nato nel 2005, che si diventa clienti Lexus, marchio di automobili assai orientato al servizio e al piacere di seguire il cliente passo dopo passo, prima e dopo l’acquisto.

Così, con un’attenzione maniacale a dettagli e qualità, tra officine come beauty farm e servizi a domicilio per le emergenze, il luxury brand scommette sulla fedeltà della clientela alta. Siamo in Giappone. Terra di contrasti, fatta di inchini, gentilezza, atmosfere e stretti protocolli che sono, innanzitutto, uno stato mentale. Qui linee, forme, luci e colori si miscelano come in un’equazione il cui risultato è l’innovazione ispirata alla tradizione. Quella stessa che ha portato il brand premium del gruppo Toyota a «realizzare auto di lusso ai massimi livelli di qualità e tecnologia, ispirata dalla cultura giapponese di anticipazione delle esigenze del cliente e dalla capacità di combinare elementi apparentemente contrastanti in soluzioni innovative», come ha sintetizzato Eiji Toyoda, l’uomo che ha reso grande la Toyota e che ha inventato il brand Lexus.

Le origini e la storia di Lexus

Era il 1983 quando, in una giornata d’agosto, riunito a Nagoya lo stato maggiore della Toyota Motor Corporation, Toyoda si mise a dettare l’agenda del giorno con un quesito: siamo capaci di fare un’auto in grado di battere i grandi marchi del lusso tedeschi, inglesi e americani? Ebbe allora inizio il progetto F1, dove F sta per flagship (ammiraglia) al quale iniziarono a lavorare 1.400 ingegneri, 2.300 tecnici e 60 designer che realizzarono 450 prototipi per un investimento stimato, all’epoca, di 3 miliardi di dollari. Obiettivo: contrastare sul mercato statunitense, oltre ai tedeschi, Acura, brand premium di Honda.

Detto, fatto. Nel 1988 arrivava sul mercato un nuovo marchio, presentato al Salone di Los Angeles. Era nata la Lexus. Toyota aveva, in altre parole, deciso di non limitarsi a realizzare un solo modello di lusso e mise in produzione una gamma di raffinate automobili. La scelta si rivelò vincente e la casa di auto giapponese decise che il progetto Lexus andava fatto conoscere al mondo. Nel 1990 venne pertanto progressivamente introdotto in Europa e nel 2005 anche in Giappone, dove è la prima marca di lusso nazionale a essere commercializzata. +

E oggi la percezione, girando nei luoghi dove le automobili Lexus si producono con meticolosa attenzione, è che il progetto Lexus non sia stato solo una scommessa (peraltro vinta) ma un obiettivo preciso, una pianificazione accuratissima, che ha previsto nei minimi dettagli un attacco scientifico al mercato del prestigio, con la forza della cultura giapponese e la potenza di un grande gruppo industriale.

DNA giapponese al 100%

Salendo a bordo delle auto Lexus, il comfort è da top class: c’è tutto e tutto è esattamente dove ci si aspetta che sia. I posti anteriori sono accoglienti e avvolgenti. I volumi sono ben proporzionati e i dettagli al top. Come per esempio la traforatura della pelle dei sedili che segue un pattern matematico per ricalcare l’effetto della griglia esterna o il suono della chiusura delle portiere e ancora il comando delle bocchette dell’aria che dà un effetto di tridimensionalità quando si illumina.

L’impronta giapponese sta tutta qui: nel tocco inimitabile della manodopera umana contrapposto all’efficienza, alla rapidità e alla precisione della tecnologia. E ancora il futuro dell’artigianato contrapposto all’ascesa dell’intelligenza artificiale, che svela al mondo che ci vogliono 60.000 ore di training in Giappone per diventare un Takumi, e cioè un artigiano.

Il futuro in una concept car: Lexus LF-1 Limitless concept

«Un concetto che è stato al centro del marchio Lexus da quando abbiamo iniziato, 30 anni fa», ha raccontato Koichi Suga, chief designer di Lexus Design Division, l’uomo incaricato di creare e orientare la direzione del design di tutti i futuri prodotti Lexus. È con lui che abbiamo parlato del futuro del design del marchio, all’interno del quartier generale del design Lexus, a Toyota City, prefettura di Aichi, il nucleo di attività di progettazione del gruppo Toyota dal 1948. E in particolare della Lexus LF-1 Limitless concept, prototipo di crossover presentato al Salone di Detroit 2018, dall’accattivante interpretazione futurista, che anticipa il nuovo corso del marchio attraverso inedite soluzioni di design. Ideata per essere al vertice della gamma, ha un’originale impostazione dell’abitacolo, sempre più tecnologico e ricco di sistemi hi-tech.

«Queste sono le linee del futuro. Ora dobbiamo pensare a come tradurle al meglio. Pensiamo sempre a creare nuovi prodotti ma vogliamo che durino nel tempo. Perché accada, credo che la chiave sia l’attenzione ai dettagli, come l’uso del vetro Kiriko o dei pannelli di tessuto pieghettati. Il coraggio è uno degli elementi centrali del design Lexus; cerchiamo sempre nuovi elementi stilistici che ci rendano unici. L’interior design sta diventando sempre più importante. Per esempio oggi i clienti tendono a preferire il touch screen. Lavoreremo in questa direzione. Infine, impresa non facile, dobbiamo anche negoziare l’introduzione di nuovi spunti di progettazione con gli ingegneri!».

Il Design Dome ospita l’intero processo creativo, dagli schizzi ai rendering 3D fino ai prototipi. L’ultimo piano ha un tetto retrattile da 200 tonnellate, in modo che i nuovi modelli possano essere esaminati alla luce del giorno, in completa segretezza, mentre un altro piano è dotato di un teatro a grandezza naturale e di una suite di realtà virtuale per la valutazione di progetti generati al computer.

Il team di Aichi ha creato l’attuale ammiraglia Lexus LS e anche il Suv RX e la coupé LC, auto che ha vinto numerosi premi internazionali di design. La strategia che, solo nel 2015, ha permesso all’azienda giapponese di far crescere le sue vendite europee del 20%, per un totale di quasi 65.000 unità, è fatta da una complessa combinazione di elementi. Innanzitutto il prodotto. Lexus punta infatti sulla tecnologia Full Hybrid, proposta su tutti i modelli della gamma a coprire i segmenti di Suv, crossover, berline sportive, coupé e ammiraglie. Le vetture presentate negli ultimi anni testimoniano inoltre uno sforzo sempre maggiore di offrire prodotti dal design emozionale, come la griglia a clessidra o lo schema a L dei gruppi ottici.

Lexus UX: il concetto engawa che disegna gli interni

Gli interni sono la vera cifra della modernità di Lexus: i designer hanno voluto cancellare il confine tra interni ed esterni della vettura.

Si chiama engawa, ed è un concetto architettonico testimoniato nelle verande delle case tradizionali giapponesi.

A testimonianza è il nuovo SUV compatto UX: abitacolo e carrozzeria sono connessi, con la sezione superiore del quadro strumenti che sembra estendersi oltre il parabrezza.

Lo stesso vale per il cofano, che sembra quasi congiungersi con la plancia, per un effetto bello e funzionale per il campo visivo. O la traforatura dei sedili in pelle liscia, con il metodo di cucitura sashiko, usato per le uniformi di arti marziali di judo e kendo per oltre 1.200 anni.

Infine il principio Seat in Control, che concentra le funzioni principali del veicolo attorno al posto guida, integrando tutti i comandi in uno spazio grande quanto il palmo di una mano.

Omotenashi: la parola d’ordine Lexus

Potevano auto del genere nascere in un luogo diverso dal Giappone?

La risposta è no, perché ogni passaggio, dalla progettazione alla realizzazione, che deve essere il più fedele possibile al prototipo, è guidato da un principio cardine della cultura del Sol Levante, l’omotenashi, ovvero l’ospitalità.

Che si traduce nel tentativo di anticipare le esigenze dei clienti, nello sforzo di rendere unica l’esperienza di acquisto e nell’applicazione di tecnologie sempre più avanzate.

E se robotica e computerizzazione hanno trasformato i processi di produzione, resta la convinzione che gli occhi e le mani dell’essere umano siano gli strumenti migliori per assicurare il massimo della qualità.

Per questo il selezionato team di artigiani Takumi si occupa di controllare personalmente ogni singola vettura e di assicurare gli standard di processi come la sabbiatura a mano nella fase di verniciatura, o le cuciture (sempre a mano) dei rivestimenti in pelle.

Senza dimenticare i luxury space Intersect by Lexus, dove gli ospiti possono interagire e sperimentare il mondo luxury del brand nipponico.

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BMW C 400: scooter per distinguersi

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Quella che, nel corso della sua lunga storia, è stata definita come una delle Case più conservatrici del panorama mondiale, è oggi all’avanguardia, in tutto. Da metà anni 90 ha rivoluzionato come nessun’altra. Quindi non solo boxer – l’icona per i fans della Casa tedesca – ma motori di ogni genere per poter seguire i gusti, sempre mutevoli, del mercato. Uno, due, quattro, sei cilindri e non sono solo numeri. Tutte le moto firmate
 BMW sono all’avanguardia, nello stile come nei contenuti. Siano cruiser, GT, enduro o sportivissime.

Con un brand come BMW Motorrad che ha un richiamo fortissimo sugli appassionati e che va a braccetto col settore automobilistico, altrettanto evoluto, raffinato e tecnologico. Per una Casa, dunque, che ha saputo rinnovarsi così rapidamente entrando con successo in ogni segmento motociclistico, non poteva mancare una decisa attenzione anche allo scooter. Che, possiamo anche dirlo apertamente, è la tipologia di mobilità che prende un po’ dall’auto e un po’ dalla moto.

 

Da subito unconventional

Ora, che la BMW metta in produzione qualcosa che sia convenzionale oppure ispirato al made in Japan (o meglio a tutto ciò che nasce nel Far East) è inimmaginabile. Quando ha iniziato ad approcciarsi al mondo dello scooter ha da subito fatto capire che il suo prodotto non si poteva confondere con nessun altro. Ricordate il C1 realizzato negli anni Novanta in collaborazione con Bertone? Aveva il tetto che fungeva da cellula di sicurezza, le cinture per il pilota ed era omologato per la guida senza casco. Sicurezza è del resto un must della BMW, che, sottolineiamo, è stata anche la prima al mondo a introdurre l’ABS sulle moto (anni Ottanta, sulla serie K).

Il C1 non ebbe fortuna, d’accordo, forse era troppo avanti per i tempi, e pure qualche difetto lo mostrava, come il baricentro troppo alto, o il passeggero piazzato dietro la “cellula” del pilota, dunque non protetto e per di più seduto contromarcia. Ma fece capire al mondo che la BMW cercava strade nuove per la mobilità, senza ispirarsi ad altri.

Più avanti nel tempo ha realizzato il 650, un maxi scooter dalle prestazioni top, al debutto nel 2012 e proposto in due allestimenti, Sport e GT. 60 e 63 CV, rispettivamente la potenza, come a dire che le prestazioni non hanno rivali. Un duro colpo per il Yamaha T-Max 500, un successo per la BMW, naturalmente nel settore d’élite della mobilità. Serviva poi un altro modello, questa volta di fascia media per inserirsi in quel mercato che fa numeri piuttosto alti. E allora ecco che alla fine del 2018 si tolgono i veli al C 400, anch’esso con due allestimenti, GT e X (lo sportivo).

 

La scheda tecnica
Le misure
Peso 204 kg (212 GT)
Velocità massima 139 km/h
Cilindrata 350 cc
I consumi
Autonomia teorica 366 km
Consumo combinato 3,5 litri/ 100 km
Emissioni di CO2 81g/km

Stile proprio, carattere unico

Che già a guardarlo non ha nulla da condividere con i rivali come il Kymco Downtown 350i e Xciting 400i S, il Piaggio Beverly 350, il Suzuki Burgman 400 o il Yamaha Xmax 400. Il centro stile BMW ha colpito nel segno, dando un family feeling ai suoi scooter e dove chiunque può trovare richiami alle moto tedesche, GS in primis. La serie C 400 la riconosci anche in mezzo a una miriade di due ruote!

Ovviamente c’è tutta la più evoluta tecnologia BMW, dall’ABS al controllo di trazione, ma anche accessori per farne un’ammiraglia confortevolissima: manopole e sella riscaldati, portapacchi e bauletti, sistema Connectivity che tramite uno schermo TFT da sei pollici dialoga con lo smartphone e l’interfono.

E poi, diremmo scontato, il sistema GPS. Il monocilindrico 4 valvole a iniezione spinge bene il BMW C 400: ha 34 CV e 3,6 kgm, quanto basta per affrontare ogni situazione dinamica, dalla città alla salita, al lungo viaggio in due. Tra X e GT cambia qualcosa oltre al frontale: l’assetto in sella e la protezione dall’aria sono migliori sul GT, mentre l’X ha un’immagine più sportiva e un’ergonomia che privilegia la guida aggressiva.

Comfort anche per i lunghi viaggi

In ogni caso, la solidità del telaio, la sicurezza offerta dai tre freni a disco e la prontezza con cui risponde il motore – grazie anche all’ottima trasmissione automatica – rendono la guida del BMW C 400 ben più che piacevole. E non solo in città. Con lo scooterone tedesco si possono affrontare anche le trasferte per i weekend estivi, pure in due, senza che la passeggera abbia da lamentarsi. Infatti, la sella è ampia e confortevole e chi sta dietro può trovare il comfort adeguato, con pratiche maniglie per reggersi, appoggiapiedi che non costringono a piegare troppo le ginocchia e, se si ha l’accortezza di montare il bauletto, un sostegno per la parte bassa della schiena. Tutte caratteristiche che giustificano il prezzo da premium: 6.950 euro il C 400 X, 7.950 euro il C 400 GT.

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Volvo, un nuovo modo di pensare l’auto

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Il mondo dell’auto si sta preparando a importantissimi cambiamenti: i motori elettrici sostituiranno quelli a benzina e a gasolio – anche se nessuno, ancora, sa dire quando questo passaggio avverrà davvero, né se la sostituzione sarà totale o solo territoriale (nelle città, per esempio) – mentre i computer supporteranno sempre più l’essere umano alla guida, fino a renderlo “superfluo”. E poi c’è Volvo, che il cambiamento ha deciso non di inseguirlo ma di anticiparlo. Come? Con un approccio innovativo a 360°, diverso da quello degli altri brand automobilistici. In che senso lo vediamo attraverso un “viaggio” nella gamma XC, ovvero quella dei SUV della Casa svedese.

Come è cambiata, di fatto, Volvo

Un percorso che ci permetterà di apprezzare non solo come il progresso venga condiviso fra tutti i modelli della gamma – senza riservarlo alle auto più grandi e costose – ma come il rispetto di una filosofia comune non significhi fare copia-incolla fra un’auto e l’altra. Prima di iniziare, un cenno a tre iniziative che la dicono lunga sull’approccio più unico che raro di questa azienda all’automotive: una è la limitazione della velocità massima dei propri veicoli a 180 km/h (una velocità non bassissima, ok, ma è pur sempre un limite in un mondo che di limiti non se ne pone quasi mai).

La seconda è la condivisione del proprio archivio digitale di dati, raccolti in 40 anni di incidenti stradali che coinvolgono le proprie auto: rilevazioni effettuate dagli ingegneri che analizzano i “rottami” e cercano di capire come migliorare la sicurezza passiva e attiva dei veicoli.

Terza, la scelta di abbandonare il diesel (a partire dalla nuova S60) e di produrre solo motorizzazioni elettrificate a partire già da quest’anno.

Tutto inizia con la seconda generazione della Volvo XC90

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Il nuovo corso Volvo inizia con la seconda generazione della XC90, in cui tutto concorre a far capire che il marchio ha cambiato marcia. Partiamo dal design: da qualunque parte la si guardi è lampante che si tratta di una Volvo, eppure non c’è un elemento che si ispiri al passato. Le superfici sono tirate come non mai, le luci anteriori accolgono per la prima volta lo stilema del “martello di Thor”, disegnato dalle strisce di LED, mentre all’interno un tablet verticale dà accesso a quasi tutte le funzioni, riducendo al minimo il numero di pulsanti fisici.

Il meglio, però, è forse ciò che non si vede: se Volvo è famosa da sempre per la ricerca sulla sicurezza passiva (la protezione in caso di incidenti), con l’XC90 fa passi da gigante in quella attiva, cioè sulla prevenzione. Grazie al Pilot Assist basta infatti regolare la distanza del veicolo che precede e si ha la netta sensazione che il domani, senza mani sul volante e piedi sui pedali, sia ormai molto vicino. Limitandoci all’oggi, la sensazione di sicurezza che infonde quest’auto è più unica che rara. E, una volta che ci si è abituati, è davvero dura tornare indietro: sensori e cervellone elettronico tengono la distanza fino a 130 km/h agendo autonomamente su freni, acceleratore e sterzo.

Sì, la XC90 è una delle primissime auto a gestire anche la direzione, pur non sostituendosi – non ancora – all’arbitrio del guidatore. Non è da meno il comfort: se quasi tutti i costruttori vanno in direzione della sportività, Volvo sembra quasi andare orgogliosa della sua scelta in controtendenza in favore della comodità. Ed è un gran viaggiare, sempre.

Passaggio di consegne con la XC60

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Che la XC90 rappresenti la “nuova” Volvo se ne ha conferma quando viene presentata la sorella più piccola, la XC60. Che, attenzione, non è una XC90 in scala ridotta (cosa che invece accade con alcuni marchi della concorrenza, che ripropongono le stesse linee su auto di dimensioni differenti), ma ha una propria distinta personalità, con dei richiami, questi sì, alla “sorella maggiore”.

La spinta all’innovazione però è ciò che più preme dalle parti di Göteborg, sede di Volvo: così, sebbene con la XC90 si potesse vivere di rendita per qualche anno, la Volvo XC60 sposta l’asticella ancora più in alto. Arriva infatti l’aggiornamento del sistema “City Safety”, che introduce il supporto alla sterzata quando la frenata automatica, da sola, non è sufficiente a evitare un impatto. Debutta anche il sistema “Oncoming Lane Mitigation”, attivo fra i 60 e i 140 km/h, che aiuta il guidatore a evitare impatti con veicoli che sopraggiungono dalla parte opposta. Ultimo, ma non meno importante, il “Blind Spot Information System”, che segnala al conducente la presenza di veicoli negli angoli ciechi e introduce la funzione della sterzata assistita che evita eventuali collisioni con veicoli che si trovano nell’angolo cieco.

Volvo XC40: la più piccola, ma solo nelle misure

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Prima, il colpo d’occhio: la XC40 – nominata Auto dell’Anno nel 2018 – è diversa e coraggiosa, nella misura in cui, dell’apprezzatissima XC60, c’è pochissimo, al di là degli ovvi richiami nella forma della calandra, dei fari e di qualche altro dettaglio. Sulla “piccola”, la carrozzeria ha uno sviluppo più verticale e, soprattutto, una personalità tutta sua nella vista laterale. Più simile a quello delle sorelle maggiori l’abitacolo, che spicca per praticità: fra le tante soluzioni intelligenti ci sono il cassetto sotto al sedile del guidatore, il gancio davanti al passeggero per appendere le borse e le tasche nei pannelli portiera, che sono così grandi da ospitare persino un laptop.

Non manca ovviamente la sicurezza: oltre a tutti i dispositivi presenti sulle sorelle maggiori, qui debutta il sistema che aiuta a scartare pedoni, ciclisti e animali: funziona in tandem con la frenata automatica e – in parole semplici – aiuta a sterzare per evitare l’ostacolo quando è troppo tardi per fermarsi. Non gira al posto di chi guida, ma gli “consiglia” la manovra corretta, dando una sorta di invito allo sterzo.

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Kia XCeed il SUV per l’Europa

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Si scrive XCeed, si legge “Ceed SUV”: l’ultima nata di Casa Kia è l’anello di congiunzione tra la Stonic e la Sportage. Un mezzo che unisce la praticità tipica degli Sport Utility al dinamismo di una compatta tradizionale, un crossover basso e sportivo disponibile esclusivamente a trazione anteriore rivolto a chi cerca un veicolo versatile ma al tempo stesso è stufo delle pseudofuoristrada alte e goffe (che di 4×4 hanno solo l’estetica) che tanto vanno di moda da una decina d’anni a questa parte.

Venduta solo in Europa, prodotta in Slovacchia e – come tutti gli altri modelli del marchio coreano – offerta con una lunghissima garanzia di sette anni o 150.000 km, la nuova Kia XCeed va ad allargare ancora di più la famiglia delle “segmento C” del brand asiatico (che già comprende cinque modelli: la Ceed “normale”, le station wagon Ceed SW e ProCeed e i SUV Niro e Sportage).

Look grintoso

Il pianale è lo stesso della Ceed (passo identico: 2,65 metri) ma il design è completamente diverso: gli unici due elementi invariati sono le portiere anteriori. Fuori troviamo un frontale più aggressivo impreziosito da prese d’aria maggiorate, dodici tinte a disposizione e una vistosa protezione sottoscocca posteriore che strizza l’occhio al mondo off-road e che regala un ulteriore tocco di personalità a una zona posteriore già contraddistinta da forme muscolose. Per quanto riguarda gli interni la plancia è identica a quella della Ceed – anche se tra gli optional non mancano pacchetti che rendono l’ambiente più colorato – ma la posizione di seduta leggermente più alta (+ 4,2 centimetri) consente di dominare meglio il traffico.

Le dimensioni della nuova Kia XCeed

La Kia XCeed è lunga 4,40 metri (9 cm più della Ceed), alta 1,49 metri (4 cm più di una Ceed, 16 meno di una Sportage) ed è più larga di 2,6 cm rispetto alla “segmento C” da cui deriva. Il bagagliaio è più ampio (426 litri che diventano 1.378 quando si abbattono i sedili posteriori, numeri non roppo dissimili da quelli offerti dalla più ingombrante Sportage)
e può vantare il divano 40:20:40, il doppio fondo e il piano di carico regolabile in altezza.

I dati tecnici
Le prestazioni
Accelerazione 0-100 km/h 7,5 secondi
Potenza 204 CV a 5.500 giri
Coppia 265 Nm a 1.500 giri
Velocità massima 220 km/h
Cilindrata 1.591 cm3

Più morbida ma c’è anche la modalità sport

Più praticità, nonostante il design sportivo, ma anche più comfort: se è vero che per la nuova Kia XCeed è prevista la modaltà di guida Sport, per chi desidera una maggiore reattività, è altrettanto vero che le sospensioni sono più morbide di quelle della Ceed (del 7% all’anteriore, del 4% al posteriore). Chi affronta spesso superfici sconnesse può inoltre beneficiare di un’altezza da terra maggiorata: 17,4 cm per la variante con cerchi in lega da 16” (montati su pneumatici 205/60) e 18,4 cm per la versione con cerchi da 18” e pneumatici 235/45.

Equipaggiamento completo

Kia XCeed è un crossover moderno ricco di tecnologia: tra gli optional troviamo infatti il sistema di infotainment UVO Connect (display da 10,25”, SIM dedicata per mantenere l’auto connessa e aggiornata in tempo reale, Android Auto, Apple CarPlay e possibilità di gestire tre applicazioni in contemporanea) e lo scenografico cruscotto digitale Supervision da 12,3”. Sempre rimanendo negli accessori a pagamento segnaliamo altre pregevolezze come l’impianto audio JBL premium, il parabrezza riscaldabile e i sedili posteriori riscaldabili. Decisamente ricca anche la dotazione di sicurezza: cruise control adattivo con Stop&Go, monitoraggio angolo cieco, frenata automatica con riconoscimento pedoni, mantenimento di corsia e abbaglianti automatici.

La gamma motori

Ultima – ma non meno importante – la gamma motori della XCeed, che comprende cinque unità (tutte turbo e tutte già viste sotto il cofano di Ceed e ProCeed): tre T-GDi a benzina (1.0 tre cilindri da 120 CV, 1.4 da 140 CV e 1.6 da 204 CV) e due 1.6 diesel CRDi da 115 e 136 CV. Bisognerà attendere il 2020 per vedere in listino le varianti più ecologiche: la ibrida plug-in (ossia ricaricabile attraverso una presa di corrente) e la mild hybrid 48V (tecnologia introdotta dalla sorella maggiore Sportage).


Primo contatto

Kia Ceed, atto terzo: questione di feeling

La terza generazione della compatta coreana si rinnova completamente nel look, diventa più sicura e migliora l’handling

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Hyundai Tucson N-Line: bella con grinta

Avete presente quegli allestimenti pseudo-sportivi tutto fumo e niente arrosto che pretendono di aumentare la grinta di un’auto solo con qualche personalizzazione estetica?

Non è certo il caso del pack N-Line della Hyundai Tucson, che oltre a regalare un look più cattivo alla seconda generazione del SUV coreano (il modello più venduto in Europa del marchio asiatico) offe due soluzioni che aumentano il piacere di guida: l’assetto più rigido – dell’8% all’anteriore e del 5% al posteriore – e lo sterzo più diretto.

Il Pack N-Line per la Hyundai Tucson è disponibile esclusivamente in abbinamento alla versione XPrime e solo se si acquista il Techno Pack (600 euro: caricatore wireless per smartphone e impianto audio Krell Premium Sound System a 8 canali con sub-woofer e amplificatore esterno). Oppure in abbinata col Safety Pack (1.000 euro: avviso ostacoli in avvicinamento durante le manovre in retromarcia, sistema di assistenza anti-collisione frontale con riconoscimento veicoli e pedoni, sistema di monitoraggio degli angoli ciechi e sistema di rilevamento della stanchezza del conducente).

Insomma l’abbinamento porta il costo a 2.500 o 2.900 euro, ma offre davvero tanto.

I segni di riconoscimento della Tucson N-Line

Un paraurti anteriore ridisegnato e impreziosito da cromature scure, cerchi in lega scuri montati su pneumatici sportivi 245/45 R19, uno spoiler posteriore nero lucido, specchietti retrovisori neri e il logo N-Line sulla fiancata.

Un look grintoso anche dentro, come dimostrano i sedili sportivi N rivestiti in tessuto scamosciato e pelle con cuciture a contrasto rosse (presenti anche sul volante con razze in metallo e sul pomello del cambio in pelle) e la pedaliera in alluminio.

Il tutto senza trascurare in alcun modo il comfort. Qualche esempio? Sedili anteriori riscaldabili e sensori di parcheggio anteriori (che si aggiungono a quelli posteriori e alla retrocamera già presenti nella dotazione di serie).

Ultima, ma non meno importante, la garanzia lunghissima di cinque anni a chilometraggio illimitato perfetta per i macinatori di chilometri che percorrono molta strada per lavoro o per piacere.

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La scheda tecnica
Le prestazioni
Accelerazione 0-100 km/h 11,8 secondi
Autonomia teorica 1.384 km
Velocità massima 180 km/h
Cilindrata 1.598 cc
I consumi
Ciclo combinato 23,8 km/litro
Emissioni di CO2 110g/km

Normale o mild hybrid

La Hyundai Tucson con il Pack N-Line – disponibile a trazione anteriore o integrale e in abbinamento a un cambio manuale a sei marce o a una trasmissione automatica DCT a doppia frizione a sette rapporti – è offerta con due motori 1.6 turbodiesel CRDi da 136 CV: uno “normale” e l’altro mild hybrid 48V.

Quest’ultimo, grazie a una batteria da 48 Volt collegata al tradizionale sistema a 12V tramite un convertitore DC/DC (soluzione che consente di utilizzare parte dell’energia stoccata nel sistema a 48V per stabilizzare l’alimentazione a 12V) e a un generatore MHSG (acronimo di Mild Hybrid Starter Generator) da 12 kW – promette una riduzione dei consumi e delle emissioni fino all’11% (usando come criterio il ciclo NEDC 2.0) e può vantare – tra le altre cose – il recupero dell’energia in frenata o in decelerazione, la funzione start/stop estesa fino a 30 chilometri orari, ripartenze più confortevoli che si sommano a un’accelerazione più pronta ed efficiente e – soprattutto – l’accesso alle zone a traffico limitato, parcheggi gratuiti e possibilità di circolare durante i blocchi del traffico.

Il mezzo ideale, omologato ibrido, per chi non può rinunciare alla convenienza del diesel ma al tempo stesso vuole mettersi al riparo dai limiti alla circolazione che penalizzano spesso le auto con motore a gasolio.

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Suzuki Jimny: così migliora un best-seller

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Suzuki Jimny, reinterpretare un classico. Potrebbe essere il titolo di un saggio di design industriale o di una case history di successo, il modo in cui i giapponesi hanno preso un modello storico ma ormai superato e ne hanno ricavato un fenomeno di vendite, 49 anni dopo.

Ovvio, si sta parlando comunque di una vettura di nicchia – un fuoristrada autentico nell’ingombro di una citycar (3,65 metri di lunghezza, 1,65 di larghezza e 1,72 di altezza) – quindi le vendite non potranno mai essere di massa, però basta guardarsi attorno per capire che la Jimny piace, e molto, anche a chi presumibilmente ha nella rampa del box l’ostacolo più grande da superare.

Suzuki Jimny: un’auto, una filosofia

Vale dunque la pena ripercorrere, anche se solo brevemente, la storia della Jimny. Prima, però, è doveroso dare atto a Suzuki di aver tenuto fede alle tradizioni con caparbietà tutta giapponese. Laddove altre Case avrebbero ripescato il nome, magari qualche elemento di design (la forma di un faro, per esempio), ma avrebbero virato su un crossover a due ruote motrici, con gli inserti nell’abitacolo in tinta con la carrozzeria e lo spoiler da granturismo, Suzuki ha riproposto la stessa formula del 1970, con gli standard qualitativi e di sicurezza di oggi.

Pensate, 50 anni fa il motore aveva una cilindrata che oggi andrebbe stretta a una moto (359 cc), i cilindri erano due e il raffreddamento era ad aria, per 21 CV di potenza. Si capisce che le prestazioni erano modeste, nonostante il peso estremamente contenuto (620 kg circa) del mezzo. Tutto nacque dalla voglia dei giapponesi, una volta conclusa la Seconda Guerra Mondiale, di provare a replicare il fenomeno dei fuoristrada americani ed europei (come ad esempio il Jeep Willys e il Land Rover) ma a modo loro: in scala ridotta.

Così uguale, così diversa

Reinterpretare, dunque. Quando hai per le mani un pezzo di storia come la Suzuki Jimny è un attimo farsi prendere dalla “sindrome del braccino”, dalla paura di osare e, alla fine, giungere a un risultato per nulla soddisfacente. Non è questo il caso del team di lavoro che ha definito la 4×4 nipponica nata nel 2018: da qualunque parte la si guardi si percepisce immediatamente che è una Jimny, anche se volumi e proporzioni sono stati completamente stravolti.

I dati tecnici
Le prestazioni
Potenza 102 CV
Autonomia teorica 588 km
Velocità massima 145 km/h
Cilindrata 1.462 cm3
I consumi
Ciclo combinato 6,8 l/100 km
Emissioni di CO2 154 g/km

Una Jimny più unica che rara

A rendere speciale la nuova Suzuki Jimny è il fatto che di concorrenti dirette non ne ha: le sole tre auto al mondo caratterizzate dalla stessa filosofia sono la Jeep Wrangler, la Land Rover Defender (presto vedremo la nuova generazione) e la Mercedes Classe G. Tutte, però, decisamente più grandi e costose.

A proposito: il listino parte dai 22.900 euro necessari per acquistare la versione dotata di cambio manuale e sale ai 24.400 euro della variante con trasmissione automatica a quattro rapporti (convertitore di coppia). La trazione è rigorosamente integrale (posteriore + anteriore inseribile) è l’unico motore disponibile è un 1.500 quattro cilindri aspirato a benzina da 102 CV.

Il bagagliaio? In configurazione quattro posti offre 85 litri di capacità, non moltissimi a dire la verità; abbattendo gli schienali del sedile posteriore si arriva a 830. Quanto alle prestazioni, la velocità massima è pari a 145 km/h, 140 per la variante automatica.

Ma non è certo con i numeri che ti conquista una macchina come la Suzuki Jimny. La sua forza è la linea, così diversa dalla “solita noia”, che varrebbe la pena valorizzare con colori vivaci come ad esempio il Giallo Kinetic. Ma qui siamo nel campo dei gusti personali.


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Suzuki Jimny: passione off-road

La quarta generazione della Suzukina rimane una delle poche fuoristrada pure sul mercato

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Seat inizia la produzione del nuovo cambio manuale del Gruppo Volkswagen

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Uno dei tre centri produttivi di Seat (Seat Componentes), insieme a Martorell e Barcellona, ha iniziato la produzione di un nuovo componente chiave per il Gruppo Volkswagen. Si tratta della nuova trasmissione manuale, a sei marce, nota con il nome in codice MQ281.

Il nuovo cambio manuale a sei marce – in grado di gestire una coppia massima compresa tra i 200 e i 340 Nm – verrà adottato dai modelli Volkswagen, Audi e Skoda e, quando verranno raggiunti i ritmi di produzione massimi, la fabbrica spagnola sarà in grado di costruirne 450.000 unità all’anno.

Negli ultimi anni Seat Componentes ha lavorato duro per migliorare l’efficienza e incrementare la produttività dello stabilimento. È per questo che i responsabili di questo centro di produzione assicurano che l’assegnazione della produzione della nuova trasmissione è un vero riconoscimento da parte del Gruppo Volkswagen.

 

Precisamente lo stabilimento industriale Seat Componentes si trova nella località El Prat de Llobregat, a due passi da Barcellona. Attualmente in questo stabilimento vengono prodotti componenti in alluminio, ingranaggi e gli assi. Può contare su impianti di fusione, meccanizzazione, montaggio e banchi di prova. Durante lo scorso anno, inoltre, Seat Componentes ha fabbricato 700.000 trasmissioni MQ200, il 56% della cui produzione è stato esportato.

Seat Componentes è una delle nuove installazioni dedicate alla produzione di trasmissioni che il Gruppo Volkswagen ha sparse per il mondo. Da lavoro a 1.000 impiegati e occupa 155.000 metri quadrati. Attualmente la capacità massima di produzione giornaliera è di 3.500 trasmissioni e, grazie all’ottimizzazione delle linee di montaggio il volume giornaliero è stato aumentato di ulteriori 300 unità.

Complessivamente Seat Componentes produrrà un totale di 800.000 trasmissioni all’anno (MQ200 e MQ281). Il primo modello a montare la nuova trasmissione MQ281 sarà la Volkswagen Passat.

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Ducati “25° Anniversario 916”, l’edizione limitata che celebra i 25 anni della 916

Ha scelto Laguna Seca (dove la Superbike ha corso il nono round stagionale) Ducati per presentare al pubblico di appassionati la “25° Anniversario 916”, edizione limitata (500 esemplari) su base Panigale V4 S realizzata per celebrare un quarto di secolo del celebre modello sportivo del marchio bolognese.

D’altronde la Ducati 916 non è stata solo una moto di grande successo commerciale, ma è stata anche estremamente vincente nelle competizioni del Campionato Mondiale Superbike: 120 vittorie, 8 titoli costruttori e 6 titoli piloti, di cui 4 con Carl Fogarty. L’inglese, in sella alle Ducati 916 SBK e 996 SBK, ha conquistato 43 delle 55 gare vinte complessivamente con la Casa bolognese. “King” Carl, insieme alla 916, rappresentano ancora oggi l’accoppiata di maggior successo nella storia delle Rosse di Borgo Panigale in SBK.

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Arriverà in Italia a ottobre a 41.900 euro la “25° Anniversario 916”, arricchita di contenuti tecnici racing derivati dalla Panigale V4 R, come, ad esempio, il telaio “Front Frame” disegnato su specifiche Ducati Corse. Esteticamente si distingue per la livrea dedicata, i cerchi forgiati in magnesio, lo scarico omologato Akrapovič in titanio e la ricca lista di componenti Ducati Performance.

Infine, la presentazione è stata anche l’occasione per ricordare Carlin Dunne, il pilota californiano del team Spider Grips Ducati, recentemente scomparso alla Pikes Peak. Jason Chinnock ha annunciato la decisione di Ducati di “ritirare” dal mercato l’esemplare contrassegnato dal 5, numero che Dunne usava in gara. La moto verrà battuta all’asta e il ricavato sarà destinato alla raccolta fondi per offrire supporto alla madre di Carlin.

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BMW M3 E30: ICONICARS

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La BMW M3 è una pietra miliare dell’automobilismo: ha ispirato ogni singola berlina sportiva prodotta dagli anni ’80 in poi, divenendo un vero e proprio punto di riferimento per ogni competitor.
Come la VW Golf GTI o la Porsche 911, la BMW M3 è sempre stata una sportiva sfruttabile, bilanciata, perfetta per l’utilizzo di tutti i giorni.

La prima M3

La prima BMW M3 è nata nel 1986, dalla base delle Serie3 E30. Il motore 2 litri quattro cilindri era lo stesso della 320is, ma i tecnici della divisione Motorsport “M” lo modificarono aumentandone la cilindrata a 2,3 litri e dotandolo delle 4 valvole per cilindro.

La potenza così passò dai circa 170 Cv (del 2.0 litri) ai 195 CV a 6.750 giri, 200 Cv nella versione non catalizzata. La M3 scattava da 0 a 100 km/h in 6,9 secondi e toccava i 235 km/h di velocità massima.

L’impianto frenante era dotato di 4 dischi autoventilati e ABS, mentre sospensioni, cambio e scatole dello sterzo vennero adattate ad un uso più sportivo.
Esteticamente era un’auto davvero speciale.

Tocchi sportivi ma di classe, con targhette M nei punti giusti, un leggero spoiler posteriore, cerchi in lega dedicati, prese d’aria maggiorate e interni più curati.
La qualità costruttiva era davvero alta, e questo ha fatto sì che il prezzo fosse molto elevato e i tempi di consegna molto lunghi.

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Le evoluzioni

I primi esemplari vennero venduti nel 1987, ma già dall’anno successivo BMW decise di aggiornare la M3. La prima BMW M3 “Evolution” era assai più muscolosa: la potenza del quattro cilindri aumentò a 215 CV mentre la carrozzeria venne modificata con sedili più leggeri e corsaioli, finestrini più sottili, uno splitter anteriore più grande e un alettone posteriore efficace.

L’anno seguente (1989) vennero prodotte anche le versioni cabrio (780 esemplari) equipaggiate con il motore da 200 Cv della prima versione, e una versione più estrema della M3, la Sport Evolution o Evo3, prodotta in soli 600 esemplari.

La BMW M3 Evolution 3, grazie al motore portato alla cilindrata di 2.467 cc e ad altre modifiche, produceva 238 Cv a 7.000 giri. Scattava da 0 a 100 km/h in 6,1 secondi e toccava i 250 km/h.
La versione Sport Evolution era anche dotata di uno splitter anteriore regolabile, di prese d’aria supplementari (montate al posto dei fendinebbia) e di un alettone posteriore maggiorato.

BMW Motorshow In Hong Kong

Credits: HONG KONG, CHINA – AUGUST 02: A BMW M3 car is on display during the BMW Motorshow ‘Joy is timeless’ at Harbour City on August 2, 2018 in Hong Kong, China. BMW Motorshow ‘Joy is timeless’ is held from July 26 to August 5 to celebrate its 50th anniversary of the brand’s arrival in Hong Kong. (Photo by VCG)

75th Member’s Meeting at Goodwood

Credits: CHICHESTER, ENGLAND – MARCH 18: 1980s BMW M3 E30 in the Group A Touring Cars demo during the 75th Member’s Meeting at Goodwood on March 18, 2017 in Chichester, England. (Photo by Michael Cole/Corbis via Getty Images)

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